mercoledì 9 novembre 2011

Armando Picchi, 40 anni dopo Capitano e signore vero


Il 27 maggio 1971 si spegneva a soli 36 anni il giocatore dell'Inter, emblema di un calcio che non c'è più. Sempre pronto a difendere il gruppo, era anche un campione di bontà e generosità. L'anniversario è stato celebrato con un libro e un documentario

di STEFANO SCACCHI per Repubblica MILANO - La finale di Coppa Campioni giocata al pomeriggio perché lo stadio di Lisbona non aveva l'impianto di illuminazione per permettere a Inter e Celtic di scendere in campo la sera. Il minuto di silenzio, nella finale del Prater di Vienna col Real Madrid, osservato al 15' del primo tempo, e non prima del via come adesso, perché allora usava così. Era il calcio di Armando Picchi e della Grande Inter, quando i calciatori erano più uomini che divi. E, a guidarli, c'erano capitani come il grandissimo libero livornese, scomparso 40 anni fa, il 27 maggio 1971 ad appena 36 anni. L'anniversario è stato celebrato con un libro e un documentario: "Armando Picchi, un nome già scritto lassù", scritto da Pierluigi Arcidiacono (Il Melograno), e "Diario di bordo del capitano", realizzato dalla MaGa Production di Roma e recentemente premiato al Festival mondiale del cinema sportivo a Milano.

Tutto parte da Picchi bambino che gioca a calcio con gli amici nel Gabbione di Livorno, quel campo di calcetto artigianale a pochi metri dal mar Tirreno sul quale si sfidavano i bambini tra un bagno e l'altro. Lo stesso campetto dove due decenni dopo Picchi tornerà con i suoi compagni dell'Inter più forte di sempre: Suarez e Burgnich andavano a Livorno d'estate insieme al capitano e venivano catapultati in queste partite infinite e agguerrite. "Che botte prendevamo", ricorda Suarez. "All'inizio Armando diceva sempre che preferiva giocare in porta per non correre troppo, dopo dieci minuti era fuori incitando tutti come se fosse una partita di Coppa Campioni. Non voleva mai perdere", raccontano gli amici del campione livornese (tra questi, il "Bistecca", al quale Picchi annunciò: "La prossima volta l'alzo io", al termine della finale Milan-Benfica del 1963, promessa mantenuta).

Capitano vero, sempre pronto a difendere il gruppo quasi come un sindacalista prima ancora che nascesse l'Aic. Come quando nel settembre 1965, al ritorno dal secondo trionfo in Intercontinentale dopo la battaglia di Buenos Aires con l'Independiente, Helenio Herrera non voleva concedere nemmeno un giorno di riposo alla squadra, in vista del successivo impegno di campionato con l'Atalanta. Un'ingiustizia secondo Picchi che chiamò Angelo Moratti per chiedere almeno 24 ore di riposo per i compagni. Richiesta accettata dal presidente che nutriva una fiducia incondizionata nei confronti del capitano. Un credito meritato, come dimostrerà anche l'analisi di Picchi sul finire della stagione 1966-67. "Herrera ci sta facendo allenare troppo, ci sta spompando", ripeteva il libero notando una certa stanchezza della squadra. Finirà con la sconfitta di Mantova e il ko col Celtic, due mazzate che costarono scudetto e Coppa Campioni in pochi giorni. Chissà che Massimo Moratti non ripensi a quella previsione azzeccata quando deve scegliere se ascoltare più i giocatori o l'allenatore.
Questa lungimiranza permise a Picchi di diventare anche un ottimo allenatore, al punto che a 35 anni Giampiero Boniperti gli affidò la panchina della Juventus. Divertentissima una notazione scritta sul diario personale, a proposito di Haller, ritenuto un ottimo attaccante, ma anche un elemento di disturbo perché rimproverava i compagni durante le partite, diminuendone il rendimento: "Ora basta perché con Haller mi sono rotto le palle. Se invece di essere allenatore fossi un compagno di squadra a quest'ora lo avrei già picchiato più volte". Una concessione sanguigna alla sua livornesità particolare. "Era più elegante di noi livornesi", dicono con un sorriso gli amici.

Ed era un signore di grande bontà: solo dopo la sua morte, i parenti scoprirono le tantissime opere di bene fatte da Picchi senza dire niente a nessuno. Tutte testimoniate dalle lettere di ringraziamento, custodite in un cassetto: un aiuto per trovare un lavoro ai disoccupati, soldi donati a bambini bisognosi di cure all'estero, piccoli gesti di sostegno ai carcerati. Tutto fatto in un meraviglioso silenzio, così diverso rispetto alla solidarietà show di tanti atleti dei giorni nostri. "Perché dire in quaranta parole se ne bastano venti", d'altronde era una frase che ripeteva spesso. La sua semplicità è racchiusa in alcune pagine del suo diario: "I momenti liberi rari sono pochi e non li butto via in sciocchezze. Mi piace studiare le lingue. Non mi piace proprio fare il "tonto", quando sono in giro per il mondo. Per questo mi tengo sempre allenato in francese, inglese, spagnolo o tedesco. Ho sempre fatto tutto con serietà perché senza serietà non si può andare avanti in questo sport che richiede sacrifici e uno spirito di abnegazione non comuni. E' necessaria una cosa sola: fare il proprio dovere". In finale di Coppa Campioni o nel Gabbione in riva al mare di Livorno.


MIO COMMENTO: Armando Picchi, Gaetano Scirea, Franco Baresi.   Tre simboli, tre liberi, tre capitani, tre bandiere, tre simboli di un calcio che fu. I primi due hanno avuto la sfortuna di morire giovani, entrambi a 36 anni, il terzo quella di invecchiare e, in qualche modo, di "corrompersi". Tre grandi del nostro calcio che ha sempre più bisogno di uomini così.

Nessun commento:

LinkWithin

Related Posts with Thumbnails